Il gesto in un mondo di parole logore

 

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Il gesto è innanzitutto un atto fisico. Corporeo. Chiaro ed evidente.
Questo avviene nella dinamica del movimento umano, che si delinea in infiniti gesti, ognuno dei quali ha diversi significati e possibilità interpretative.

Il gesto, all’interno di un suo specifico silenzio, (al di la di quanto “rumore” e parole possa avere attorno) è sempre elemento primo di comunicazione. Infatti, esso, è sistematicamente antecedente al discorso verbale.
Con il gesto è già possibile capire se l’interlocutore ha compreso quel che gli abbiamo detto, e il suo essere o meno d’accordo.
Il gesto ha sempre una velocità maggiore della parola, essendo praticamente “parola dentro la carne”. Dialogo inscritto sotto la pelle umana.

Questo è particolarmente emblematico nell’amore, quando l’amante esprime nei gesti la propria passione, mentre non trova parole adatte ad esprimere il suo sentimento. In tal modo gesto e parola possono essere infinitamente asimmetrici.
Nel gesto, prima che nelle parole, si esprime l’amore.
E tutto questo vale per molti altri sentimenti, come la tristezza, l’allegria…

Il volto, a volte, è già abbastanza comunicativo, da non aver alcun bisogno di oralità.

Ma tutto questo non significa che vi sia sempre armonia tra gesto e parola, perché possono infatti anche esprimere significati molto diversi. Totalmente in contraddizione tra di loro.
Possono generarsi ambiguità, e questo perché il gesto include sempre una notevole complessità e ricchezza, essendo per sua natura carico di sfumature. Mentre la parola, nel suo essere spesso abusata, diventa facilmente “logora” e quindi priva di un reale carico di significato.
Il gesto invece apre al mistero, alla possibilità. Nella sua grande profondità e spessore è sempre autentico.

All’interno dei rapporti umani, a volte è la parola che può farsi “menzogna”, perché mentre diciamo qualcosa, mostriamo tutt’altro e questo è evidente in chi racconta di star bene ma mostra in volto un’evidente tristezza.
Può capitare, e questo deve sempre essere preso in considerazione, che le convenzioni sociali, un certo analfabetismo emotivo, ed altre condizioni possano impedire il fluire comunicativo dei sentimenti. Le parole confondono più che chiarire, ma dalla parte del cuore troveremo sempre i gesti. Come il “silenzio”, essi chiariscono, sorprendono, e richiedono accoglienza totale.

C’è uno stretto rapporto tra “gesto” e “silenzio”. Entrambi sono il prima e il dopo della parola. La generano, la abitano e la riportano nei luoghi dell’autenticità emotiva.
I gesti sono carichi di emozioni, perché sono sempre avvolti di affetti, e non possono in tal senso mai ingannare.

I gesti, che nelle conversazioni sono involontari, nella loro naturalezza, non solo rendono la punteggiatura e il ritmo delle parole, ma essendone sfondo “musicale”, restituiscono colore, forma e tonalità emotiva. Senza i gesti le parole sarebbero null’altro che lettere in libertà, sterili di significato.

Con i gesti ci avviciniamo, raccontiamo, ci esponiamo, oppure respingiamo e allontaniamo. Ma al di là dell’esprimere sentimenti negativi o positivi, o che richiamino vicinanza o impongano lontananza: i gesti sono sempre dialogo, e quindi sono sempre rapporto umano, con l’altro, con il mondo e con se stessi.

F. Urbani

Un sottile filo rosso. La leggenda di Akai Kito

 

In un tempo non tanto lontano, c’era un uomo  di nome Wei. Era rimasto orfano dei genitori e nel suo cuore c’era  il grande desiderio di avere una famiglia numerosa. Nonostante avesse cercato a lungo, non era ancora riuscito a trovare la donna giusta per lui. Era un uomo che viaggiava molto. Un giorno, nei pressi di un tempio, incontrò un anziano signore che stava consultando un libro sulle unioni del destino.

Wei, senza esitare, si presentò all’anziano  lettore e subito chiese di poter consultate il libro. Secondo questo strano volume, Wei non aveva ancora trovato moglie perchè la donna di cui si sarebbe innamorato, legata a lui da un sottile filo rosso attaccato al migliolo, era ancora troppo piccola.

Wei rimase sconvolto e deluso allo stesso tempo. L’anziano signore  raccontò a Wei che vi è un filo rosso che lega gli esseri umani, un filo molto lungo, impossibile da tagliare.

Trascorsero quattordici anni e Wei era ancora celibe. Un giorno, all’ improvviso, scorse una ragazza bellissima con una strana fascia in testa. I due chiacchierarono, passeggiarono e s’innamorarono. Wei chiese alla giovane donna di togliere la fascia dalla testa ma la ragazza scoppiò in lacrime, rivelando che aveva una grossa cicatrice causata da un uomo quando era molto piccola.

In effetti, Wei, quattordici anni prima, arrabbiato per quanto aveva scoperto nel libro del tempio, aveva  dato ordine al servo di scovare la ragazzina ed eliminarla.

Wei si ricordò di cosa aveva combinato e scoppiò in lacrime, confessando di essere stato lui ad avere ordinato di ferirla.

l’uomo ebbe così l’occasione di raccontare tutta la vicenda all’amata e da allora non si lasciarono più.

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Tartarughe e sterletti

Palermo, 27 gradi. C’è una giornata splendida e rimanere è veramente un’impresa eroica. Così decido di portare Cristina al parco per correre  e scaricare un pò di ansia e noia. In questi mesi, infatti, ho notato che Cristina ha sviluppato paure che prima non aveva: il buio, i motori, il frullatore e i rumori troppo forti.

Correndo insieme, abbiamo scoperto una vasca con tartarughe e tanti sterletti.

Una semplice corsa in mezzo agli alberi, si è trasformata in un momento magico di scoperta del mondo naturale.

Osservare la natura viva in movimento ha colorato il volto di Cristina di un sorriso che non vedevo da tempo.

 Sembravamo due carcerate in libera uscita. Spero veramente che l’estate, ormai alle porte, possa essere un momento di recupero delle forze psico-fisiche perchè, oggi come mai, mi sono resa conto di quanto psicologicamente siamo stremate.

Spero di poterla portare a mare per un bagno senza la paura di essere contagiati, di poterle comprare un gelato e mangiarlo al tramonto, immerse nella natura, di poterle regalare nuove avventure alla scoperta di ciò che ancora non conosce.

Letture nutrienti: simile o prossimo?

Carissimi, quest’oggi desidero condividere con voi un’interessante riflessione su cosa significa l’espressione “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. In questo periodo di difficoltà, cerco di concentrarmi su letture e approfondimenti che mi possano nutrire.

 

Buona lettura!

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Se l’amore di Dio è un dono, è necessario meditare sul dovere di amare, e in particolare sul dovere di amare il prossimo. Il legame tra i due amori è espresso dalla parola di Dio: “Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11).

“Amerai il prossimo tuo come te stesso” era un comandamento antico, scritto nella legge di Mosè e Gesù stesso lo cita come tale (Lc 10, 27).

Come mai dunque Gesù lo chiama il “suo” comandamento e il comandamento “nuovo”?

La risposta è che con lui sono cambiati l’oggetto, il soggetto e il motivo dell’amore del prossimo.

È cambiato anzitutto l’oggetto, cioè chi è il prossimo da amare. Esso non è più solo il connazionale, o al massimo l’ospite che abita con il popolo, ma ogni uomo, anche lo straniero, anche il nemico. “Io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.

Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto?” (Mt 5, 44-47).È cambiato anche il soggetto dell’amore del prossimo, cioè il significato della parola prossimo.

Esso non è l’altro; sono io; non è colui che sta vicino, ma colui che si fa vicino. Con la parabola del buon samaritano Gesù dimostra che non bisogna attendere passivamente che il prossimo spunti sulla mia strada, con tanto di segnalazione luminosa, a sirene spiegate. Il prossimo sei tu, cioè colui che tu puoi diventare. Il prossimo non esiste in partenza, si avrà un prossimo solo se si diventa prossimo di qualcuno. È cambiato soprattutto il criterio o la misura dell’amore del prossimo.

Fino a Gesù il modello era l’amore di se stessi: “come te stesso”. È stato detto che Dio non poteva assicurare l’amore del prossimo a un “piolo” meglio confitto di questo; non avrebbe ottenuto lo stesso scopo neppure se avesse detto: “Amerai il prossimo tuo come il tuo Dio!”, perché sull’amore di Dio – cioè, su cos’è amare Dio – l’uomo può ancora barare, ma sull’amore di sé, no. L’uomo sa benissimo cosa significa, in ogni circostanza, amare se stesso; è uno specchio che ha sempre davanti a sé, non lascia scappatoie.

E invece una scappatoia la lascia ed è per questo che Gesù sostituisce ad esso un altro modello e un’altra misura: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12). L’uomo può amare se stesso in modo sbagliato, cioè desiderare il male, non il bene, amare il vizio, non la virtù. Se un simile uomo ama gli altri “come se stesso” e vuole per gli altri le cose che vuole per se stesso, poveretta la persona che è amata così! Sappiamo invece dove ci porta l’amore di Gesù: alla verità, al bene, al Padre.

Chi segue lui “non cammina nelle tenebre”. Egli ci ha amato dando la vita per noi, quando eravamo peccatori, cioè nemici (Rom 5, 6 ss).

Si capisce in questo modo cosa vuol dire l’evangelista Giovanni con la sua affermazione apparentemente contraddittoria: “Carissimi, non vi scrivo un comandamento nuovo, ma un comandamento vecchio che avevate fin da principio: il comandamento vecchio è la parola che avete udita.

E tuttavia è un comandamento nuovo che io vi scrivo” (1 Gv 2, 7-8). Il comandamento dell’amore del prossimo è “antico” nella lettera, ma “nuovo” della novità stessa del vangelo.

Nuovo perché non è più solo “legge”, ma anche, e prima ancora, “grazia”. Si fonda sulla comunione con Cristo, resa possibile dal dono dello Spirito. Santa Caterina da Siena ha dato la spiegazione più semplice e convincente. Ella fa dire a Dio:

“Io vi chiedo di amarmi con lo stesso amore con cui io amo voi.

Questo non lo potete fare a me, perché io vi amai senza essere amato. Tutto l’amore che avete per me è un amore di debito, non di grazia, in quanto siete tenuti a farlo, mentre io vi amo con amore di grazia, non di debito.

Voi non potete dunque rendere a me l’amore che io richiedo. Per questo vi ho messo accanto il vostro prossimo: affinché facciate ad esso quello che non potete fare a me, cioè di amarlo senza considerazione di merito e senza aspettarvi alcuna utilità.

E io reputo che facciate a me quello che fate ad esso”.

Lazzaro di Betania

La Pasqua è ormai vicina, e la chiesa ci invita a meditare sul grande segno della resurrezione di Lazzaro, profezia della resurrezione di Gesù.
“Un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato”. Gesù amava molto questi amici, che frequentava nei periodi di sosta a Gerusalemme: nella casa di Betania trovava l’accoglienza premurosa di Marta, l’ascolto attento di Maria (cf. Lc 10,38-42) e l’affetto fedele di Lazzaro.
Le sorelle mandano ad avvertirlo della malattia di Lazzaro, ma egli è lontano, al di là del Giordano. Come può Gesù permettere che un suo amico si ammali, soffra e muoia? Che senso ha? Sono domande affiorate all’interno della rete di amicizie di Gesù, ma che ancora oggi risuonano quando nelle nostre relazioni appaiono la malattia e la morte; è l’ora in cui la nostra fede e il nostro essere amati da Gesù sembrano essere smentiti dalle sofferenze della vita.

Gesù risuscita Lazzaro

 

 

Gesù, informato di tale evento, dice: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”, ovvero è un’occasione perché si manifesti il peso che Dio ha nella storia e così si manifesti la gloria del Figlio, gloria dell’amare “fino alla fine” (Gv 13,1). Egli parla un linguaggio che sembra contraddire l’evidenza: sempre nella malattia la morte si staglia all’orizzonte con la sua ombra minacciosa, eppure Gesù rivela che la malattia di colui che egli ama non significherà vittoria della morte su di lui.
Gesù giunge con i suoi discepoli a Betania quando “Lazzaro è già da quattro giorni nel sepolcro”. Marta, saputo del suo arrivo, gli va incontro e gli rivolge parole che sono insieme una confessione di fede e un rimprovero: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. Poi aggiunge: “Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, te la concederà”. Marta è una donna di fede e confessa che dove c’è Gesù non può regnare la morte, che la morte di Lazzaro è accaduta perché Gesù era lontano. Essa crede in Gesù e, sollecitata da lui, confessa la propria fede nella resurrezione finale della carne.

Ma Gesù la invita a compiere un passo ulteriore: “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”. E Marta replica prontamente: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”.

Anche Maria, chiamata dalla sorella, corre incontro a Gesù e, gettandosi ai suoi piedi, esclama a sua volta: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. I toni sono più affettivi, Maria esprime con le lacrime il proprio dolore. Essa ama Gesù e si sa da lui amata, si mostra pronta a incontrarlo e si inginocchia davanti a lui, ma non dà segni di una fede che possa vincere la sua sofferenza: è interamente definita dal suo inconsolabile dolore. Le sue lacrime sono contagiose: piangono i giudei presenti e piange lo stesso Gesù
Qui l’evangelista ci chiede di sostare sugli umanissimi sentimenti vissuti da Gesù. Innanzitutto egli si commuove, freme interiormente. Di fronte alla morte di un amico, di una persona da lui amata, la prima reazione è il fremito che nasce dal constatare l’ingiustizia della morte: come può morire l’amore? Perché la morte tronca l’amore, la relazione? Poi Gesù si turba: il fremito di indignazione diventa turbamento, esperienza del sentirsi ferito e del sentire dolore e angoscia. Gesù prova questa reazione emotiva anche di fronte alla prospettiva della propria morte imminente (cf. Gv 12,27), e quando nell’ultima cena annuncia ai suoi il tradimento di Giuda (cf. Gv 13,21). Infine, alla vista della tomba Gesù scoppia in pianto, reazione che i presenti leggono come il segno decisivo del suo amore per Lazzaro.

Giungiamo quindi al vero vertice del racconto: l’incontro tra Gesù e Lazzaro. Gesù, ancora una volta fremendo nel suo spirito, si reca alla tomba e vede la pietra che chiude il sepolcro: colui che è la vita (cf. Gv 14,6) comincia un duello, una lotta contro la morte. Il testo apre uno squarcio sulla relazione di profonda intimità tra Gesù e Dio. “Gesù alzò gli occhi e disse: ‘Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto’”, così come Gesù stesso ascolta sempre il Padre (cf. Gv 5,30).

È l’unica volta che prega prima di compiere un segno, ma la sua è una preghiera di ringraziamento al Padre, a colui che è il fine stesso della preghiera: Gesù desidera che i presenti giungano a credere che egli è l’Inviato di Dio, dunque un segno che rimanda alla realtà ultima, alla fonte di ogni bene, il Padre.
La risposta di Dio giunge immediata, percepibile nella parola efficace di Gesù, che compie ciò che dice: “Lazzaro, vieni fuori!”. Gesù aveva annunciato “l’ora in cui coloro che sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio e ne usciranno” (cf. Gv 5,28-29). Ecco un’anticipazione: Lazzaro, morto e sepolto, esce dalla tomba ancora avvolto dalle bende, e con la sua resurrezione profetizza la resurrezione di Gesù.

Non solo, ma la resurrezione di Lazzaro, “colui che Gesù ama”, manifesta la ragione profonda per cui il Padre richiamerà Gesù dai morti alla vita eterna: nel duello tra vita e morte, tra amore e morte, vince la vita, vince l’amore vissuto da Gesù. Gesù è la vita, è l’amore che strappa alla morte le sue pecore, le quali non andranno perdute (cf. Gv 10,27-28); se Gesù ama e ha come amico chi crede in lui, non permetterà a nessuno, neppure alla morte, di rapirlo dalla sua mano!

Avvenuto il segno, la sua lettura e interpretazione spetta a quanti lo hanno visto. “Molti dei giudei credettero in lui”. La fede non fa certo sfuggire alla morte fisica: tutti gli esseri umani devono passare attraverso di essa, ma in verità per chi aderisce a Gesù, la morte non è più l’ultima, definitiva realtà. Chi crede in Gesù ed è coinvolto nella sua amicizia, vive per sempre e porta in sé la vittoria sulla malattia e sulla morte. Non solo, come si legge al termine del Cantico, “l’amore è forte come la morte” (Ct 8,6), ma l’amore vissuto e insegnato da Gesù è più forte della morte, è profezia e anticipazione per tutti gli amici del Signore, tutti destinati alla resurrezione.
Questa è la gloria di Gesù, gloria dell’amore, anche se all’apparenza egli sembra sconfitto: in cambio di questo gesto, infatti, riceve una sentenza di morte dalle autorità religiose, per bocca del sommo sacerdote Caifa (cf. Gv 11,46-53). Dare la vita a Lazzaro è costato a Gesù la propria vita: ecco cosa accade nell’amicizia vera, quella vissuta da Gesù, che ha donato la propria vita per gli amici (cf. Gv 15,13).

L’amore, l’amicizia di Gesù, dunque, vince la morte. Se siamo capaci di mettere la nostra fede-fiducia in lui, questa pagina ci rivela che non siamo soli e che anche nella morte egli sarà accanto a noi per abbracciarci nell’ora in cui varcheremo quella soglia e per richiamarci definitivamente alla vita con il suo amore.

Ecco il dono estremo fatto da Gesù a quanti si lasciano coinvolgere dalla sua vita: la morte non ha l’ultima parola, e chiunque aderisce a lui, lo ama e si lascia da lui amare, non morirà in eterno! Canta Gregorio di Nazianzo: “Signore Gesù, sulla tua parola tre morti hanno visto la luce: la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Nain e Lazzaro uscito dal sepolcro alla tua voce. Fa’ che io sia il quarto!”.

Enzo Bianchi

Sorridi

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Solo per oggi, e domani ancora…
Alzati presto. Fai un sorriso
Lascia andare i sensi di colpa, non guardarti indietro.
Fai un piano, credi in te stesso.
Goditi ciò che sei. Accetta la tua umanità.
Chiedi aiuto, e accetta ciò che gli altri hanno da darti.
Ringrazia.
Cambia, senza indugio e con coraggio.
Accetta ciò che non puoi cambiare. Sii paziente.
Mantieni le promesse, quelle del tuo cuore.
Non indugiare sul passato.
Vivi con amore ogni momento. Costruisci un domani migliore.
Apri il tuo cuore, esplora la tua anima.
Ricorda, i miracoli accadono.
Sorridi.

Stephen Littleword, Aforismi

Bambina mia

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Bambina mia,

Dolce meravigliosa benedizione di Dio

ti stringo al mio petto di mamma.

Accarezzo le tue manine

i tuoi occhi s’illuminano e sorridono.

Vorrei proteggerti e tenerti lontano

da ogni bruttura

e farti scorgere prati sconfinati

ornati di fiori profumati e, insieme,

mano nella mano

correre

libere

senza affanni e angosce.

Daniela F.

Tu

 

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Mi spingi oltre i miei limiti
e sento di vivere appieno la mia stessa vita,
in te ho incontrato me stesso
e ho guardato oltre,
oltre ogni inimmaginabile limite.

Ho guardato nel profondo dei tuoi occhi
cercando di comprenderti
ma, ho visto tutto quello che di me
mai avrei voluto vedere.

Ho visto la mia fragilità e la mia insicurezza
i miei sensi di colpa e i miei complessi
le mie paure e la mia insofferenza
ho visto le mie tenebre e i miei demoni
allora, ho guardato ancora oltre
e nel profondo del mio cuore, un mare in tempesta,
un oceano immenso dove tuffarsi e perdersi

e lì nel profondo della mia anima ho compreso!

Ho provato piacere e orgoglio
nel capire quello che oggi provo
nel sapere chi oggi sono veramente
adesso so che amo le cose belle
so che amo tutto quello che la vita mi offre
e una di quelle sei tu.
P.Coelho

Mio padre

Mio padre aveva le mani grandi che profumavano di trementina ed olio.

Mio padre era un uomo vulcanico, creativo che riusciva a trovare una soluzione in ogni situazione.

Mio padre era uno che sapeva ascoltare tutti con il cuore aperto e attento agli altri

Ti guardava negli occhi, ti osservava, restava in silenzio.

Mio padre era uno che aveva la capacità di meravigliarsi dinanzi  ad un uccellino, ad una vite.

Mio padre era uno che non si lamentava anche se ne avrebbe avuto motivo.

Quindici anni di malattia,  tante chemio e radioterapie, due trapianti di midollo osseo e alla fine un’endocardite l’ha fatto diventare farfalla.

Mio padre era un uomo semplice a cui devo molto di ciò che sono,

Mi ha indicato la Via, mi ha preso per mano, abbracciato e protetto.

Mio padre, due parole scolpite nel mio cuore che profumano di eternità.

Daniela F.02263E1B-9D38-4656-8C34-AD51E6F07EBA