La notte ha le ore contate

Il Signore viene sempre di notte: nel Natale, nella Pasqua, nella morte. Viene nel dolore, nel dubbio, nella sofferenza, nella malattia, nella vecchiaia, nel peccato, nel deserto, nella solitudine. Solo quando egli appare è giorno: “Per te le tenebre sono come luce”.
La notte la si attraversa sapendo che essa ha sempre le ore contate. La notte è preludio dell’alba. Le gemme non spuntano forse su rami che sembravano morti? Le spighe non crescono da un seme che marcisce?
Che cos’è la Pasqua se non una morte dalla cui sconfitta nasce la vita nuova?
La Pasqua è un accettare di entrare nella morte nella consapevolezza che proprio quando più nessuna mano umana è in grado di tenerci, ci afferrano le braccia del Padre.
Se è vero che ogni uomo ha la sua notte, è altrettanto vero che la notte non ha mai l’ultima parola sulla vita dell’uomo.

Dal web

Per chi è alla ricerca di un senso

A volte la vita spirituale non ci consola, la nostra preghiera non riceve risposta e capita di sentirsi insultati, soli, incompresi, rigettati. Ma è proprio questo il frangente in cui noi dobbiamo rimanere fedeli, senza dimenticare che il male usa queste circostanze per portarci a rompere la nostra relazione con Dio. La fede è fatta di ostinazione, bisogna essere saldi, restare. Non dobbiamo avere paura quando non sentiamo risposte. Rimaniamo e continuiamo a pregare. Il momento più importante per adorare il Signore è proprio quello in cui Egli ci sembra distante, quando pensiamo che quasi non esista. Cesare Pavese si professava ateo, eppure scriveva: “O Dio che non esisti, ti prego, esisti!” Solo la fedeltà può salvarci, e il segreto della fede non è capire tutto, ma è restare.”

L. M. Epicoco

Quel che affidiamo al vento


A me fu recata, furtiva, una parola, e il mio orecchio ne percepì’ il lieve sussurro.”( Gb4.12)

Nel mondo della letteratura contemporanea, ci sono libri che vanno oltre le semplici parole stampate, si spingono oltre riuscendo a condurre il lettore a riflessioni ed emozioni che sembravano sopite. “ Quel che affidiamo al vento” di Laura Imai Messina rientra sicuramente in questa categoria. Questo libro emozionante e toccante mi ha condotta in un viaggio emotivo tra passato e presente, portandomi a riflettere sul mio vissuto e su alcuni aspetti dolorosi.
Il vento sussurra, a volte, ciò che il nostro cuore desidera ascoltare anche solo per un’ ultima volta. Immaginiamo le voci di chi abbiamo amato, sogniamo parole che avremmo voluto dire, desideriamo abbracci che non possono più esserci. Ci portiamo dentro ferite che il cuore trascina, giorno dopo giorno provando ad annusare profumi ed odori che ci sono rimasti addosso.
Con un tocco gentile, uno stile scorrevole e un linguaggio evocativo ed empatico, l’autrice racconta le vite dei personaggi Yui, Hana e Takeshi dopo il devastante tsunami del marzo del 2011 in bilico tra il passato e il desiderio di ricominciare. Una storia di dolore e parimenti di speranza che interroga il lettore fin dalle prime pagine sul senso della propria vita e sul modo in cui provare a ricominciare a vivere. La chiave di lettura del romanzo è incentrato a sulla presenza di un telefono nero senza fili conosciuto come Bell Gardia, posto all’ interno di una gabbina a vetri con inserti azzurri all’interno di un giardino meraviglioso.

Lo scopo del telefono è’ evidente: dare la possibilità di poter comunicare con i propri defunti. I personaggi che visitano quel luogo si trovano a dover fare i conti non solo con la morte delle persone che hanno amato ma anche con i non detti . Ecco allora il marito che cerca la moglie, la mamma che prova a parlare con la figlia scomparsa prematuramente. Il telefono, realmente esistente, in un modo miracoloso, non aiuta a guarire dalla mancanza, dal vuoto o dal dolore ma prova a mettere ordine nei cuori confusi attraverso il racconto dei propri vissuti, permettendo di poter andare avanti, di progettare, di sognare ancora, di sentirsi vivi. Quel telefono senza fili che la protagonista difende a costo della vita, è un ponte in cui il dolore viene placato e il cuore può lasciarsi consolare. Attraverso la storia dei personaggi e i loro legami emerge con forza quanto sia importante custodire e proteggere le persone che amiamo.Sono il nostro focolare, sono casa, il luogo in cui le nostre fragilità possono essere accolte e superate:

Yui comprese che l’infelicita’ aveva sopra le ditate della gioia. Che dentro di noi teniamo premute le impronte delle persone che ci hanno insegnato ad amare, a essere ugualmente felici ed infelici.”

A proposito di tesori e ricchezze

Passiamo la vita ad accumulare campi e tesori. Pensiamo che alla fine la quantità ci aiuterà a riempire il vuoto che ci portiamo dentro. Ma la verità è che la vita non vale per il “quanto” ma per il valore di un piccolissimo dettaglio che diventa il motivo per cui tutto vale la pena. La gente è disperata perché non trova questo tesoro, o forse neppure lo cerca più. Ci ingozziamo di tantissime cose perchè non proviamo mai veramente gusto in nulla. Il dono della fede è il dono di aver ritrovato un gusto, un sapore della vita che ci fa smettere di vivere in maniera compulsiva e ci fa essere felici per quello che abbiamo ora. E’ l’intuizione che in ogni presente è seppellito un tesoro per cui tutto vale la pena. In questa realtà, qualunque essa sia, c’è già ora il regno di Dio. L’eternità è nel frammento di ogni istante. La dimenticanza di questo è la radice della disperazione moderna. Ricordarselo è un dono che va chiesto.
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra”.

Don L. Epicoco

Santa Genoveffa di Parigi

Quando abbiamo visitato il Pantheon, mi ha colpito moltissimo notare come una chiesa, in origine, fosse divenuta con la Rivoluzione francese un monumento di commemorazione dello stato. In particolare mi ha affascinato moltissimo la figura di Santa Genoveffa, da me quasi completamente sconosciuta.

Lungo le navate del Pantheon vi erano pitture murali di grande impatto emotivo che ne raffiguravano la vita.

Quest’oggi desidero condividere con voi la storia e il culto di questa santa incredibile.

Vita di Santa Genoveffa, Puvis de Chavannes

Santa Genoveffa di Parigi, nota anche come Sainte Geneviève in francese, è una figura storica e religiosa di grande importanza per la città di Parigi. La sua vita e il suo impatto sulla comunità cristiana hanno lasciato un segno indelebile nella storia della capitale francese.

Nata intorno al 419 o 422 d.C., Genoveffa trascorse gran parte della sua vita a Parigi, quando ancora la città era una modesta comunità gallo-romana. Sin dalla giovane età, dimostrò una straordinaria pietà e devozione verso la fede cristiana. Si racconta che, fin da bambina, avesse avuto delle visioni divine e una profonda intimità con Dio.

Un evento cruciale nella sua vita avvenne durante l’assedio di Parigi da parte degli Unni, guidati da Attila, nel 451 d.C. Genoveffa incoraggiò la popolazione a rimanere forte nella fede e pregare per la protezione della città. La sua guida spirituale e il suo coraggio ispirarono la gente, e si dice che la città fu miracolosamente risparmiata dalla distruzione.

Genoveffa divenne un’icona di speranza e protezione per la città, e il suo prestigio crebbe rapidamente. Inoltre, il suo spirito caritatevole la portò ad aiutare i poveri e i bisognosi, guadagnandosi l’amore e la gratitudine della comunità.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 512 d.C., la venerazione di Genoveffa crebbe costantemente. La sua tomba, situata nella basilica di Sainte-Geneviève, divenne un importante luogo di pellegrinaggio per i cristiani, e la sua influenza si diffuse oltre i confini di Parigi.

Nel corso dei secoli, Genoveffa è stata considerata la protettrice di Parigi e la sua patrona. Le sue reliquie sono state oggetto di venerazione durante periodi di crisi, come la Guerra dei Cent’anni e le guerre di religione. La sua figura è stata celebrata anche in opere d’arte e letteratura, contribuendo a mantenerne viva la memoria.

Oggi, Santa Genoveffa continua a essere un importante simbolo di identità per i parigini e un riferimento di fede per i cattolici.

Il suo spirito di protezione, dedizione e carità continua a essere un faro di ispirazione per le generazioni che l’hanno seguita, rendendola una delle sante più amate e riverite della cristianità.

Pittura murale di Jean Paul Laurens (1838-1921) Parigi, Pantheon

La costruzione di un amore

L’amore è bellezza. Ma non solo.
L’amore è anche fatica, impegno e dedizione.
L’amore non è ritrovarsi nell’altro.
Perché per vivere un amore bisogna prima essersi ben trovati in se stessi.
Poi con l’altro si parte verso una nuova meta: uscire dalla dimensione dell’io e diventare noi.
Nell’amore non si prende. Ma si costruisce.
In chi amiamo troviamo la più straordinaria occasione di trasformazione ed evoluzione di noi stessi.
Ma per riuscire in tutto questo, anche l’altro deve viversi con questa attitudine.
L’amore è generativo. Perché se lo abiti bene, aggiunge sempre. Anche quando ti pare che stia togliendo.
L’Amore è costruzione, ma la costruzione dell’Amore a volte implica anche distruggere quei pezzetti di sé in cui il nostro “Io” aveva generato la sua comfort zone.
“La costruzione di un amore mescola il sangue col sudore, se te ne rimane” cantava Ivano Fossati. E’ un’immagine molto forte, ma contiene una grande verità. Non si può costruire qualcosa di grande senza la dimensione del sacrificio. Parola che oggi tutti rifuggiamo, perché non ne comprendiamo la radice etimologica: rendere sacro.
C’è una luce profonda che illumina la storia di coppie che abitano l’Amore per davvero. Con la profondità di quella luce è bene confrontarsi.
Perché l’Amore non si improvvia. L’Amore si impara.

A.Pellai, Appartenersi, Mondadori

Sulla scuola…

A scuola dovremmo insegnare tante cose.

Ad esempio che i giorni passano e noi con loro. E il tempo conta.

Dovremmo insegnare a ballare sulla paura. E a far sbocciare i fiori nel deserto.

Ad accettare la fine delle cose. Che le cose possono finire, e devono essere pronti ad accettarlo.

Insieme alle tabelline dovremmo insegnare la caducità di ciò che è importante. Tipo la vita.

Metterli davanti a un tramonto e dire: “Ora guarda come è bello”, invece di far studiare i nomi dei capoluoghi a memoria, che quelli si dimenticano e li imparano da soli.

Far conoscere la noia. Che nella noia il pensiero costruisce idee. E i nostri figli hanno bisogno di tempo lungo.

Dovremmo insegnare che la vita vale e bisogna amare. Farlo tanto e farlo bene, anche se poi l’amore finisce. Ma quello che ci ha dato, resta per sempre.

Che i sogni non li porta via il vento, ma li perdiamo noi. E bisogna lavorare con impegno e saperli rinnovare, che anche quelli seccano. Come le piante.

Dovremmo portarli in una casa di cura. Farli parlare con i nonni che hanno ancora tanto da dire e conoscono la lingua dei piccoli. Fargli sentire la loro pelle e il tempo che passa. La vita che c’è prima che sia finita.

Dovremmo insegnare che il dolore é parte dell’esistenza, e dovremmo lasciarli piangere quando si fanno male, che fa bene al cuore. E lasciarli litigare, che i litigi passano e i bambini sanno ancora volersi bene.

Dovremmo, insieme alla grammatica, insegnare a parlare delle parole. Dare i nomi ai sentimenti, che spesso sono confusi. Che da grandi non sappiamo cosa proviamo e ci perdiamo in un bicchier d’acqua.

Dovremmo farli camminare su un prato la mattina presto a piedi scalzi e far sentire il silenzio. Che quello dice cose.

Farli andare due ore alla settimana nella palestra della solitudine. Che la solitudine s’impara e non spaventa.

Dovremmo insegnare a servire a tavola. Prendersi cura dei luoghi di tutti. Che poi così lo sanno fare. Non sporcano le strade e non rovinano le città se non sono le loro.

Cucinare un piatto buono, lasciando un po’ di libertà. Che nella vita gli ingredienti vanno dosati ma l’improvvisazione non ce la insegna nessuno.

A scuola dovremmo insegnare oltre alle poesie a memoria, le canzoni. Tanto per cantare. Che la vita é davvero bella. E la musica solleva sempre. Di più nei momenti bui.

Fare esperienza del corpo. Sapere che lo abbiamo e, spesso, è il nostro migliore alleato.

Dovremmo portarli alle mostre. Che dentro a un quadro, a un’immagine, a una fotografia loro ci sanno entrare. Scavalcano luoghi e epoche in un battibaleno.

Studiare la storia di ieri ma anche di oggi. Che le guerre ci sono e lo devono sapere. Che gli altri soffrono e li devono sentire. Che qualcuno è morto per la nostra libertà e qualcun altro lotta ancora per la sua. E questa è una tristezza.

Insegnare che nel mondo non siamo uguali e potremmo parlare di meritocrazia quando tutti i bambini saranno sulla stessa linea di partenza. Finché non sarà così, sarà solo una grande truffa di cui non devono fare parte.

Ogni classe dovrebbe adottare un bambino a distanza. Ché la fortuna si divide.

Dovremmo insegnare ai bambini a poter essere ciò che sono. Anche niente, se la vita gli ha piegato le gambe da subito.

Dovremmo insegnare che le mani non si alzano e la voce neppure. Che imporre la propria volontà non serve a niente.

Che possono usare il rosa se sono maschi e l’azzurro se sono femmine. Se a loro piace. Non saremo noi a dire cosa è giusto.

Che possono perdere di brutto e chiedere scusa. Tornare indietro sui propri passi. Virare, e farlo all’improvviso.

Dovremmo farli leggere sotto le stelle. E ogni tanto fargli osservare il cielo e i suoi misteri. Che è un maestro e conosce le rotte di tutti. Far esprimere tre desideri ogni stella cadente, che i desideri nella vita hanno un peso.

Dovremmo insegnare ai bambini a prendersi cura di loro stessi, avere una piccola pianta, un pesce. Un essere di cui occuparsi, preoccuparsi, per poter amare chi hanno accanto.

Dovremmo insegnare che la scuola è di tutti e non solo di chi può permettersela. Che devono pretendere aule colorate, giuste, e spazi all’aperto, e devono curarle. Come le cose belle.

Dovremmo far mettere le mani nella terra. Che se si sporcano fa lo stesso. Il lavoro nobilita l’uomo e la fatica pure, e le scienze sono esperienza sul campo. Un lombrico trovato per caso può fare la differenza.

Dovremmo parlare ore. Che loro sanno cose sull’esistenza a noi ignote.

Dovremmo insegnare la vita. Che il resto s’impara. Quella finisce presto e dovremmo farne buon uso. Da grandi. Da subito.

E vivere è un compito urgente, più di tutto il resto.

Cinzia Pennati

Il silenzio del sabato. Pensieri sparsi

Il sabato, il giorno del silenzio. Ogni cosa tace. Stravolti e ammutoliti dal dolore profondo della morte in croce, non si sa più cosa aspettarsi.

Un pianto senza lacrime, a tratti sommesso, ci spinge a sperare oltre ogni speranza ciò che il cuore in fondo intuisce.

Cosa resta? Non abbiamo la forza di uscir fuori dal nostro baratro, dall’oblio delle nostre fragilità.

Solo il Verbo può tirarci fuori, consolare e donare alle nostre vite un senso, Lui che ha amato ciascuno di noi fino alla fine.

Daniela F.

Carezze forti

Restate vicini anche quando la vita
è contraria. Quando i muri si alzano.
E le strade spariscono.
Mostrate la bellezza.
A chi oramai ha smesso di cercarla.
Respirate profondamente.
Anche senza un motivo.
Abbracciate profondamente
anche senza un perché. Certi dolori
hanno bisogno di carezze forti. Prima per andare via.
Poi, per non tornare più.
Scusarsi per un errore.
Equivale a non averlo fatto.
Fatelo. Fatelo spesso.
Giudicatevi voi, meglio degli altri.
E non vergognatevi mai di piangere
per qualcuno. Le lacrime non si nascondono. Guarite la rabbia leggendo poesia.
Siate sempre chiari con voi stessi.
Fatevi mettere all’angolo solo
per farvi riempire di baci.
Abbiate cura della vostra solitudine.
E non avrete bisogno di altri consigli.

Andrew Faber (pseudonimo di Andrea Zorretta, 1978 – poeta e scrittore italiano)

La domenica della speranza

Oggi è la prima domenica di Avvento, tempo di attesa e preghiera, un tempo di grazia per chi nel dolore e nella sofferenza spalanca il proprio cuore in cerca di quiete e pace.

Nella domenica del profeta che richiama tante riflessioni, condivido con voi un’interessante meditazione di G. Boselli, Monaco di Bose che spero possa tornare utile a ciascuno di voi in questo straordinario momento di grazia in cui, assetati, aneliamo all’Acqua che disseta.

Per John Henry Newman il nome del cristiano è “colui che attende il Signore”. Invece dobbiamo riconoscerlo: da secoli, in occidente, l’attesa della venuta del Signore è una dimensione per lo più assente nella vita di fede dei cristiani. Era il rammarico di Ignazio Silone che scriveva: “Mi sono stancato di cristiani che aspettano la venuta del loro Signore con la stessa indifferenza con cui si aspetta l’arrivo dell’autobus”.

Rivelatore di questa realtà è il modo abituale di comprendere e vivere l’Avvento. Io sono persuaso che l’Avvento è il tempo liturgico oggi meno compreso nel suo valore e nel suo significato. Lo si è ridotto a tempo di preparazione alla festa del Natale. Che tristezza! Non si comprende che l’Avvento è la chiave di tutto l’anno liturgico: l’escatologia è la verità dimenticata dell’intero anno liturgico.

L’Avvento è la chiave per comprendere la celebrazione delle feste della manifestazione del Signore nella carne: i fatti che hanno immediatamente preceduto la nascita di Gesù Cristo, la sua nascita a Betlemme, la manifestazione ai Magi, il battesimo nel Giordano fino alle nozze di Cana. Capiti nella loro intelligenza spirituale, i testi liturgici dell’Avvento esprimono non l’attesa di una nascita già avvenuta nella storia una volta per tutte, quanto piuttosto l’attesa della definitiva venuta di Cristo nella gloria.

Domandiamoci: ma com’è possibile che la liturgia cristiana, che è sempre memoriale della morte e risurrezione di Cristo finché egli venga, faccia di noi cristiani gente per la quale il Signore non è ancora nato e dobbiamo attendere la sua nascita? Se la liturgia dell’Avvento ci costringesse a immedesimarci in coloro che duemila anni fa attesero la nascita di Gesù, la liturgia sarebbe nient’altro che l’artefice di un complesso sociodramma, ossia di una rievocazione ritualizzata degli eventi fondatori del cristianesimo. La nascita non la si attende ma la si commemora (commemoratio nativitatis Domini nostri Jesu Christi ), ciò che si attende è invece la parusia che è il compimento del mistero Pasquale.

Il modo di vivere l’Avvento è il simbolo della diffusa perdita della dimensione escatologica che è uno dei tratti distintivi del cristianesimo moderno e contemporaneo occidentale. La progressiva spiritualizzazione dell’escatologia ha portato l’esistenza cristiana a soffrire di un male grave: l’amnesia della parusia. Osservando come la malattia del nostro tempo sia la volontà di dimenticare l’avvento di Dio, J.B. Metz in una preziosa meditazione sull’Avvento pone una domanda:

“Domandiamoci una volta in questi giorni di Avvento e di Natale: non agiamo forse, segretamente, come se Dio fosse restato tutto alle nostre spalle, come se noi – frutti tardivi di questo ventesimo secolo post Christum natum – potessimo trovare Dio solamente in un facile e malinconico sguardo del nostro cuore, una debole luce riflessa alla grotta di Betlemme, al bambino che ci è stato dato?

Abbiamo noi qualche cosa di più della visione di questo bambino negli occhi, quando nelle nostre preghiere e nei nostri canti proclamiamo: è l’Avvento di Dio? Prendiamo qualche cosa di più del Dio dei nostri ricordi e dei nostri sogni? Cerchiamo realmente Dio anche nel nostro futuro? Siamo uomini dell’Avvento, che hanno nel cuore l’urgenza della venuta di Cristo, e con gli occhi che spiano, cercando negli orizzonti della propria vita il suo volto albeggiante?”. (J. B. Metz, Avvento di Dio, Queriniana, Brescia 1966, p. 22.)

Oggi, dobbiamo riconoscerlo, vi è una patologia nel modo di vivere l’Avvento. In realtà l’Avvento è il solo specifico cristiano, perché un tempo di digiuno e penitenza come la Quaresima la condividiamo con l’islam, il tempo della Pasqua con l’ebraismo, ma l’attesa della venuta del Kyrios è solo cristiana. Solo noi cristiani attendiamo il ritorno di Cristo da lui stesso promesso: “Sì vengo presto! Amen.” (Ap 22,20) Per questo, privare l’anno liturgico della sua costitutiva dimensione escatologica significa sottrarre alla fede cristiana la dimensione della speranza.

Così compreso e vissuto, l’Avvento sarebbe il tempo dell’anno liturgico più eloquente per i credenti di oggi. Uomini e donne che faticano a sperare perché privati di ogni speranza, a volte perfino incapaci di sperare. Per questo, occorre fare attenzione a liturgie troppo festanti al limite del superficiale, eccessive nei toni e negli accenti, quasi che si debba sempre ed a ogni costo far festa.

Domandiamoci: si è altrettanto capaci di offrire ai credenti liturgie capaci di suscitare la speranza, di nutrirla. Liturgie capaci di dare ragioni per sperare a cuori stanchi ed affaticati, capaci di risollevare quanti, come i discepoli di Emmaus, si fermano “con il volto triste”. Lo sappiamo, la fatica a credere, ad avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, è uno dei tratti che caratterizzano l’uomo e la donna occidentali dei nostri giorni e questo non può non segnare anche la fede del credente contemporaneo.

Comprendere l’anno liturgico non come un ciclo, un anello chiuso su di sé, ma come un movimento elicoidale che mette la fede in cammino significa, nel preciso contesto antropologico, culturale e sociale nel quale viviamo, comprendere che le nostre liturgie, e più in generale le celebrazioni dei sacramenti, sono oggi chiamate ad ospitare un modo di vivere la fede, anche tra i credenti più assidui, che non è più, come un tempo, la somma di certezze incrollabili, ma è l’espressione di un desiderio di qualcosa e di qualcuno in cui poter sperare, così che credere significa aggrapparsi ad una speranza.

Oggi la fede è, infatti, per lo più sperimentata come l’apertura ad una speranza. Nutrire la speranza, questo oggi è il compito primo dell’anno liturgico, dare ragioni per alimentarla, per esercitarsi a credere che ci sono realtà non visibili, e queste realtà sono la nostra salvezza. Uscire dalla precarietà in cui ci si trova per entrare un giorno nella condizione di beatitudine in Dio. “Solo la speranza nella vita eterna ci fa propriamente cristiani”, ha scritto Agostino (La città di Dio, VI,9,5.).

Oggi è molto difficile parlare di speranza, dare ragioni di speranza, eppure questo è il compito oggi dell’anno liturgico, perché la mancanza di speranza rende l’uomo estraneo al tempo, irrimediabilmente assente a questo tempo presente. La speranza è esattamente questo: volere infinitamente il finito, è vivere eternamente il tempo. Come ha scritto Emmanuel Mounier in un saggio dedicato a Péguy, la speranza “Rifà ciò che l’abitudine disfa. E’ la sorgente di tutte le nascite spirituali, di ogni libertà, di ogni novità. Semina cominciamenti là dove l’abitudine immette morte”