Dopo tre ore e mezza di compiti seduta alla scrivania, mia figlia ha aperto il quaderno per iniziare un altro lungo lavoro. Con gli occhi stanchi e la testa china, la penna tenuta in mano a fatica dopo tante ore di sforzo.
E d’un tratto l’ho guardata per ciò che è.
Una bambina di undici anni. L’ho fermata. Le ho detto: “Ora ti riposi. Chiudi i libri, mangi qualcosa, e ti metti a giocare o fare qualcosa che ti piace”.
Non mi importa se non prenderai dieci, le ho detto. Non mi importa se non avrai una media altissima, se alla fine dell’anno non sarai tra gli alunni degni di borse di studio o riconoscimenti.
Mi importa che saprai dare valore alla vita ogni giorno, perché sarai capace di trovarvi sempre qualcosa per cui vale la pena.
Mi importa che saprai amare la cultura, ma capirai che puoi farlo anche leggendo un libro o vedendo un film, e saprai che è bello poterti godere in modo sano e buono la vita.
Mi importa che cercherai di essere il meglio che puoi, ma che non serve essere i primi. A volte ti capiterà anche di arrivare ultima, e lo potrai accettare senza sentirti sbagliata e inutile.
Mi importa che capirai il valore della fatica e dell’impegno, ma che non è necessario solo essere performante e inseguire il successo: sono altri i valori che abitano il mondo, e vorrei che li scoprissi.
Mi importa che tu sappia che puoi giocare, puoi farlo anche adesso che hai quasi dodici anni, e che mi auguro che la bambina che è in te la lascerai giocare sempre, anche quando un giorno ti accorgerai che sarà diventata una donna.
Avrei voluto dirle tutto questo.
Invece le ho messo una mano sulla testa e le ho detto solo: “Ora ti riposi”.
Ho chiuso il quaderno, lei ha sorriso felice, ed è andata a giocare.
Per caso mi sono imbattuta in questo post dello scrittore Nicola Pesce che desidero condividere con voi. Mi ha colpito perché le stesse parole le sento pronunciare ai miei ex alunni con rammarico e tanta frustrazione.
Pubblico per riflettere insieme e chissà che non venga fuori qualche soluzione al problema.
“Non è colpa nostra. È questa società che ci ha reso ansiosi, spaventati, che ci fa sentire falliti e insoddisfatti.
Ci hanno fatto stare seduti in classe almeno 5 ore al giorno per venti anni, quando eravamo teneri, dicendoci che se prendevamo voti alti poi avremmo avuto vita facile, avremmo trovato lavoro. E a casa altre ore di studio!
Io a scuola mia non ho mai visto un computer! E non mi hanno mai parlato dalla Cina. Tutti i professori di inglese che ho avuto non sapevano parlare inglese. Non mi hanno mai insegnato nulla di relativo all’economia spiccia. Non mi hanno detto cosa fosse una fattura, una tassa, un assegno.
Poi ci sbarcano nel modo, come nudi sul ghiaccio, e nessuno ci vuole a lavorare. E non sappiamo fare niente. Il lavoro non c’è proprio. Va a finire che devi accettare qualunque cosa, con la laurea in un cassetto. Veramente un inutile “pezzo di carta”.
E questo ci fa sentire dei falliti. Guardiamo sul telefonino una cricca di bugiardi o di fortunati e crepiamo di invidia e di insoddisfazione, ci flagelliamo: perché loro sì e noi no? Dove abbiamo sbagliato? Da nessuna parte!
E io due cose voglio dire. In primo luogo, non è colpa nostra! Non è proprio colpa nostra. Ci hanno trascinato in questa sciocchezza. Ma se stiamo zitti un tempo sufficiente, senza tv, pubblicità, telefonini, gente come zombies, possiamo ritrovarci.
In secondo luogo, smettiamola di fare questa corsa ai soldi, a un successo da copertina, a un matrimonio da film Disney: sono tutte cose inventate. Ci hanno inculcato tutte cose che possono portarci solo a un sentimento di fallimento.
Io vorrei una nuova società. Dove il successo di una persona non si misura coi soldi. Molti sono ricchi e sono distrutti psicologicamente. Chiedetelo ai loro figli.
Vorrei che misurassimo il nostro successo con l’affetto di chi ci sta intorno, con quanto abbiamo saputo cucinare bene un piatto, con quanto ci alziamo felici dal letto la mattina, con quanto abbiamo riso, quanti baci abbiamo dato nel corso della giornata. Se abbiamo una casa quieta, se abbiamo un po’ di cultura, se amiamo leggere un libro, se pratichiamo un’arte, se la sera c’è qualcuno che ci fa una carezza.”
Sento forte il desiderio di svelare la mia fragilità, di mostrarla a tutti coloro che mi incontrano, che mi vedono, come fosse la mia principale identificazione di uomo, di uomo in questo mondo. Un tempo mi insegnavano a nascondere le debolezze, a non far emergere i difetti, che avrebbero impedito di far risaltare i miei pregi e di farmi stimare. Adesso voglio parlare della mia fragilità, non mascherarla, convinto che sia una forza che aiuta a vivere.
«Fragilità» ha la stessa radice di frangere, che significa rompere.
La fragilità di un vetro pregiato di Murano o di un cristallo di Boemia: bello, elegante, ma basta poco perché si frantumi e si trasformi in frammenti inservibili. Conoscendone la natura, si deve stare attenti a come lo si usa, a come lo si conserva: occorre tenerlo lontano da luoghi in cui si compiono azioni d’impeto, perché altrimenti quel vetro pregiato si fa nulla, solo ricordo.
«Fragile» significa anche delicato, gracile.
Come un fiore: basta un colpo di vento e un petalo si stacca e perde il suo profumo, divelto dalla sua funzione, muore.
Il contrario di fragile è resistente, tetragono, indistruttibile.
Si pensa agli oggetti in acciaio, alle rocce di una montagna. All’uomo di roccia, non di vetro, all’uomo potente, non fragile: c’è e tra un attimo potrebbe svanire, pezzi di un’unità defunta, come non fosse mai stato.
Si sente dire che l’educazione deve edificare un bambino forte, un uomo di coraggio che affronta le lotte e le vince.
La timidezza, invece, va curata e prima ancora nascosta; la paura va dimenticata e sostituita con la potenza e per questo ci si allena a battere un nemico, prima immaginario e poi di carne; e l’abilità sta proprio nel romperlo e non nel venire rotti.
Ecco la differenza tra i due opposti: la fragilità e la forza.
«Grandi» si crede siano coloro che hanno sempre vinto, mentre i «gracili» in un attimo si incrinano, si frantumano in tanti piccoli pezzi che non permettono di venire ricomposti.
Io sono fragile e, paradossalmente, sono portato a parlare di forza della fragilità: di forza, anche se lontano dalla stabilità, dalla infrangibilità.
Ho dedicato il mio tempo alla follia, al dolore mascherato di insensatezza, di depressione; alla sofferenza che si fa silenzio, che sdoppia le identità e fa di un uomo uno schizofrenico. Un lavoro che molti ritengono esclusivo dei forti, degli uomini di ferro che magari si piegano ma non si rompono, degli uomini di pietra cui il vento rende liscia la pelle, che cambiano forma, ma non perdono mai la durezza e il destino fissati per sempre.
La fragilità richiama il tempo e la caducità del tempo, del tempo che passa. Ebbene, se sono stato, e sono, un buon psichiatra, se ho aiutato i miei matti, ciò è avvenuto per la mia fragilità, per la paura di una follia che si annida dentro di me, per la fragilità che avverto capace di sdoppiarmi, di togliermi la voglia di vivere e di rendermi simile a un depresso che chiede soltanto di scomparire per cancellare il dolore di cui si sente plasmato.
E il dolore è una qualità dell’essere fragile.
Ecco perché voglio gridare la mia fragilità, dirlo ai miei matti, a tutti coloro che corrono da me per ancorarsi a una roccia. Devono sapere che semmai si attaccano a un vetro di Boemia, a un vaso di Murano, colorato, magari soffiato in forme curiose e piene di fascino. Come un vetro io, psichiatra fragile, tante volte ho corso il rischio di rompermi.
Una gracilità che però aiuta l’altro a vivere, che mi ha permesso di capire la fragilità e di rispettarla, di stare attento a non manipolare gli uomini, a non falsificarli. Ho amato persino i frammenti di uomo, mi sono dedicato con pazienza a metterne insieme i suoi pezzi.
La fragilità rifà l’uomo, mentre la potenza lo distrugge, lo riduce a frammenti che si trasformano in polvere.
Per questo Natale ti auguro di tornare a casa, in quella parte più intima di te stessa, in quel sacrario dove sono custoditi i tuoi desideri e i tuoi sogni più profondi e sinceri. Ti auguro di fermarti un istante per poter osservare, oltre il buio, le feritoie da cui filtra un timido raggio di Luce. Ti auguro di accogliere le tue fragilità e quelle altrui. Ti auguro di avere un cuore sempre libero e una mente lucida che ti permetta di avere uno sguardo di speranza anche quando la vita è dura e impietosa.Ti auguro di vivere senza rimandare oltre.Custodisci le persone che hai incontrato e incontrerai nel tuo cammino.
Sono trascorsi trent’anni dalle stragi in cui persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta. Avevo nove anni e non potrò mai più dimenticare lo sguardo di mio padre di fronte allo scempio dell’autostrada distrutta e due mesi dopo, a luglio, alla nube nera che invase le strade del centro di Palermo. Smarriti, angosciati, sgomenti, ci sentivamo così.
Oggi ci sono state tante manifestazioni in città, cantanti, momenti di riflessione,tanti collegamenti televisivi, scuole, giovani, associazioni, tutti impegnati a ricordare con commozione le stragi. Domani sarà tutto finito. Forse resterà qualche striscione, un paio di articoli ma la città riprenderà la vita di sempre.
Mi chiedo a che punto siamo.Per fortuna non ci sono più gli attentati come nel passato ma certi meccanismi e dinamiche sono ancora radicate perchè, in fondo, il cuore dell’uomo è duro e dimentica con estrema facilità, deraglia e sprofonda in vere e proprie strutture di peccato.
Chi vive in Sicilia, chi vive a Palermo sa che deve scegliere ogni giorno da che parte stare, sa che deve comprendere, leggere tra le righe di una storia di sangue e di morti ammazzati.
Chi vive in Sicilia, a Palermo sa che alzare la testa ha un costo elevatissimo per sè e i suoi cari, sa che può perdere il lavoro, se c’è. Sa che è destinato ad una vita di sofferenza e solitudine, di scorte e destinazioni ignote.
Le lenzuola bianche andrebbero stese ogni giorno per scuotere le coscienze, per educare le nuove generazioni. Ci può forse essere un futuro per una città ferita.
Condivido una riflessione che ha scritto mio marito questo pomeriggio.Sento e vivo con lui il peso di queste parole. Ogni virgola scritta su questo post,ogni lacrima sommessa, ogni grido inascoltato, il solco profondo della solitudine, il vuoto ma anche la Provvidenza, la presenza di un Dio che ci accompagna, asciuga le lacrime e mette la sua mano sulle nostre spalle, sul petto ferito.
Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Tu eri dentro di me ed io ero fuori.
Che bello meditare su queste parole di S. Agostino, soprattutto in prossimità del Natale. Siamo tutti alla ricerca di Dio, lo cerchiamo spasmodicamente, ci arrabbiamo con Lui perché non ci risponde, perché non corre in nostro aiuto nel momento del bisogno.
E prima o poi siamo tentati di giungere a rapide conclusioni: Dio non c’è, non esiste, e se c’è se ne frega. Ah… quante volte lo abbiamo pensato, quante volte lo abbiamo detto.
Forse è questo quello che vuole, che alla fin fine ce ne freghiamo di Lui, che alla fine di tutto ci stanchiamo di preghiere e preghierine, santi, santini e santuzze, corone, coroncine e novene. Basta, basta! A che serve, se poi «con un coltello piantato nel fianco gridai la mia pena e il suo nome», e lui era «stanco, forse troppo occupato e non ascoltò il mio dolore, davvero lo nominai invano» ?
Forse è proprio questo che Dio vuole, vuole essere dimenticato, vuole che torniamo a qualcosa che dovremmo conoscere bene e non conosciamo. Vuole semplicemente che torniamo a casa, che torniamo in noi stessi. Dovrebbe essere più facile credere in sé stessi… no?
Tu eri dentro di me ed io fuori… fuori da che? fuori da me stesso. Viviamo tutti fuori da noi stessi, continuamente rivolti all’esterno. Quand’è l’ultima volta che abbiamo ascoltato il battito del nostro cuore? E il delicato ritmo del nostro respiro? Quando l’ultima volta che abbiamo provato a far scendere il più possibile l’aria nei nostri polmoni?
Torniamo a noi stessi, torniamo a prendere contatto con la parte più intima di noi. Riprendiamo a volerci bene, a guardarci con uno sguardo di benevolenza. Rientriamo, rientriamo in noi ed è lì che troveremo Dio, lo troveremo lì, in noi, a soffrire con noi per quel «coltello piantato nel fianco». Non ci sentiremo mai più soli, tutta la nostra vita diventerà preghiera, rendimento di grazie. Ed allora, e solo allora, finalmente avremo pace.
(Ascoltando F. De Andrè – Il Testamento di Tito – da cui sono prese le citazioni tra virgolette!)
La manipolazione umana è divenuta una tecnologia e una scienza, nella quale si investono molti più soldi che in tutti gli altri campi della psicologia. La mente ha caratteri strutturali e funzionali che la sua parte conscia ignora e che la rendono condizionabile dall’esterno a sua insaputa. La manipolazione mentale non è qualcosa che “può” avvenire, o che avviene in “determinati” ambiti e momenti: essa è regola, non eccezione. Essa è onnipresente e investe la società nel suo insieme, al fine di produrre, inibire e coordinare la consapevolezza e i comportamenti degli esseri umani come consumatori, come lavoratori, come elettori. La funzione della manipolazione mentale non è la manipolazione mentale fine a se stessa, ma la gestione e lo sfruttamento delle società e dei singoli. Quanto meno è nota, tanto più essa è penetrante, incontrastata ed efficace nell’agire soprattutto sui livelli inconsci della psiche. Se ci guardiamo intorno, noteremo che la maggior parte della comunicazione mira non già a informare oggettivamente, ma a influire sulla psiche, sui gusti, sulle decisioni della gente, dei consumatori, dei risparmiatori, degli elettori. E che, per farlo, agisce o cerca di agire sulla loro emotività, sui loro sensi di colpa, di autostima e di paura. La gente diventa meno manipolabile, ovviamente, se si accorge della manipolazione, dei suoi metodi e dei suoi fini. Conoscere tali tecniche e conoscere i punti deboli della psiche, è la condizione di partenza per poter capire che cosa ci sta succedendo nelle varie situazioni a cui siamo esposti, per difendere la nostra libertà dai condizionamenti e la nostra capacità di riconoscere ancora la realtà in un mondo che è sempre meno realtà percepita e sempre più rappresentazione costruita.”
La vita cristiana è una lotta, una guerra senza tregua. San Paolo ci invita, nella lettera degli Efesini, a rivestire l’armatura di Dio per lottare « non contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti » (Ef 6,10-17). Egli descrive dettagliatamente tutti i pezzi di quella armatura che dobbiamo indossare.
Ogni cristiano dev’essere ben convinto che la sua vita spirituale non può in alcun caso ridursi a uno scorrere tranquillo di giorni senza storia, ma deve essere il luogo di una lotta costante (contro il male, le tentazioni, lo scoraggiamento), a volte dolorosa, che terminerà solo alla morte. Quest’inevitabile lotta è da interpretare come una realtà estremamente positiva. Poiché « non c’è pace senza guerra » (Santa Caterina da Siena), senza lotta non c’è vittoria. Proprio questo conflitto è il luogo della nostra purificazione e della nostra crescita spirituale, in tal modo impariamo a conoscere noi stessi nejla nostra debolezza e Dio nella sua infinita misericordia. È, in definitiva, il modo scelto da Dio per la nostra trasfigurazione e la nostra glorificazione.
Ma la lotta spirituale del cristiano, pur essendo talvolta dura, non è mai la guerra disperata di chi si batte in solitudine, alla cieca, senza nessuna certezza circa l’esito dello scontro. È la lotta di chi combatte con l’assoluta certezza che la vittoria è già assicurata, perché il Signore è risorto: « Non piangere più; ecco, ha vinto il Leone della tribù di Giuda » (Ap 5,1). Così, non combattiamo da soli con le nostre forze, ma con il Signore che ci dice: « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12,9) e la nostra arma principale non è la naturale fermezza del carattere o l’abilità umana, ma la fede, questa totale adesione Cristo che ci permette, anche nei momenti peggiori, di abbandonarci con fiducia cieca a colui che non abbandonerà. « Tutto posso in colui che mi da la forza » il 4,13). Ed ancora: « II Signore è mia luce e mia salvezza,
chi avrò paura? » (Sai 27).
Il cristiano dunque lòtta con energia, chiamato com’è a resistere « fino al sangue nella lotta contro il peccato » (Eb 1,4). Lo fa però con cuore tranquillo e la sua lotta è tanto più efficace quanto più il suo cuore dimora nella pace. Perché è proprio questa pace interiore che gli permette di lottare
non con le proprie forze — che verrebbero meno —, ma con quelle di Dio.
J.Philippe
Non si diventa felici. La felicità c’è già. E’ stare nelle cose come sono, senza tentare di cambiarle. I classicisti, grandi conoscitori del’anima, dicono che bisogna cercare la felicità nella tristezza e la tristezza nella felicità. Per essere felici bisogna saper accogliere anche la tristezza. La felicità determinata dalla volontà è scadente, la sola felicità autentica è quella che arriva spontanea. Felicità fa rima con spontaneità. Per esempio la possiamo trovare appunto, nell’immergerci in un lavoro che ci piace. Quando sei intento nelle azioni che fai e ti ci perdi, allora sei nella felicità. Quando arrivano pensieri tristi bisogna guardarli senza cercarne la causa. Senza chiedersi perché sono arrivati. Bisognerebbe essere capaci di guardare dentro di noi senza giudicare gli altri. Purtroppo viviamo nella civiltà del commento. Non siamo capaci di ascoltare il dolore e aspettare da dentro la risposta. La felicità la trovi quando smetti l’autocritica, quando smetti di lamentarti, raccontando le cose a destra e a sinistra. Dare la colpa della nostra infelicità agli altri ci rende ancora più infelici. Il problema è che abbiamo creato una cultura psicologica per cui tuo padre o tua madre sono la causa di ciò che sei. Il padre che hai avuto, ogni volta che lo ripensi, lo ricrei dentro di te e diventa l’alibi di tutte le tue sfortune. Un esercizio utile èchiudere gli occhi e immaginarsi in una scena di felicità di quando si era bambini. Quando eravamo bambini avevamo dei talenti che poi si sono persi. Bisogna recuperare questa coscienza. Siamo pieni di parole inutili. L’ascolto di se stessi, in silenzio, delle cose che emergono da dentro, anche le peggiori, è la meglior medicina per il cervello. Solo se tratteremo i nostri disagi non come nemici, ma come compagni di viaggio allora se ne potranno andare.
“Siamo piante che devono fiorire, non target da raggiungere o modelli da imitare”