Buona vigilia

«Mantieni coloro che ami vicini a te, dì loro all’orecchio quanto ne hai bisogno, amali e trattali bene, prenditi tempo per dirgli “mi dispiace”, “perdonami”, “per piacere”, “grazie”, e tutte le parole d’amore che conosci.»

(Gabriel García Márquez)

Altrove

Pensateci.
Siamo tutti malati, di un male sottile e persistente.
Una malattia che agisce in sordina, che apparentemente non fa alcun rumore.
Io la chiamo ‘la malattia dell’altrove’.
Siamo sempre in un indefinito altrove:un altro tempo, un altro luogo, altre persone.


Al tavolo con amici e siamo al cellulare a scrivere all’amica (e poi, quando siamo con quell’amica, magari scriviamo a qualcun altro).
Relazioniamo il nostro tempo ad un tempo andato. “Si stava meglio prima”, “quando ero più giovane”, “se solo avessi”, “chissà come sarebbe stato”..
Oppure siamo in proiezioni future. Gli impegni del giorno dopo, le preoccupazioni per il lavoro, l’attesa spasmodica e persistente di una felicità posticipata, sempre, ad un momento “da venire”.
Quando avrò la macchina,
Quando avrò la laurea,
Quando avrò il lavoro,
Quando avrò una relazione,
Quando avrò una casa,
Quando avrò dei figli.
Per poi, inevitabilmente, spostarci in un ulteriore “altrove” quando li avremo ottenuti.
È così che schiacciamo e mortifichiamo ogni giorno il nostro tempo, la nostra vita, il respiro del nostro Adesso.
Un ‘oggi’ che ogni giorno perde energia ed entusiasmo.

Ecco. È un modo eccellente per rendersi infelici, delegando aspettative e vita ad uno spazio “oltre” che ha la consistenza di un puro pensiero.
Domani non esiste. Domani sarà, tra 24 ore, un nuovo oggi. E oggi sarà quello che domani chiamerai ieri. Lo osserverai con nostalgico rammarico e dirai “se solo avessi..”, “chissà come sarebbe stato se..”.


E allora?
Vogliamo ancora prenderci in giro, perdendoci nei meandri degli “altrove” e delle possibilità perdute o scegliamo di agire, oggi?
Ovunque siate, siateci davvero.
Ciascun momento è unico e, croce e delizia, non ritornerà più.
È il vostro tempo, la vostra vita.
Ed è Adesso.

[Da Sette Secondi, 2018 Oscar Travino]

Carezze forti

Restate vicini anche quando la vita
è contraria. Quando i muri si alzano.
E le strade spariscono.
Mostrate la bellezza.
A chi oramai ha smesso di cercarla.
Respirate profondamente.
Anche senza un motivo.
Abbracciate profondamente
anche senza un perché. Certi dolori
hanno bisogno di carezze forti. Prima per andare via.
Poi, per non tornare più.
Scusarsi per un errore.
Equivale a non averlo fatto.
Fatelo. Fatelo spesso.
Giudicatevi voi, meglio degli altri.
E non vergognatevi mai di piangere
per qualcuno. Le lacrime non si nascondono. Guarite la rabbia leggendo poesia.
Siate sempre chiari con voi stessi.
Fatevi mettere all’angolo solo
per farvi riempire di baci.
Abbiate cura della vostra solitudine.
E non avrete bisogno di altri consigli.

Andrew Faber (pseudonimo di Andrea Zorretta, 1978 – poeta e scrittore italiano)

Sulla felicità

«Ho imparato a essere felice
Là dove sono
Ho imparato che ogni momento
Di ogni singolo giorno
Racchiude tutta la gioia
Tutta la pace
Tutti i fili di quella trama
Che chiamiamo vita
Il significato è riposto in ogni istante
Non c’è un altro modo per trovarlo
Percepiamo solo e soltanto ciò
Che permettiamo a noi stessi
Di percepire
Tutti i giorni
Un istante dopo l’altro.»

(Hermann Hesse)

La domenica della speranza

Oggi è la prima domenica di Avvento, tempo di attesa e preghiera, un tempo di grazia per chi nel dolore e nella sofferenza spalanca il proprio cuore in cerca di quiete e pace.

Nella domenica del profeta che richiama tante riflessioni, condivido con voi un’interessante meditazione di G. Boselli, Monaco di Bose che spero possa tornare utile a ciascuno di voi in questo straordinario momento di grazia in cui, assetati, aneliamo all’Acqua che disseta.

Per John Henry Newman il nome del cristiano è “colui che attende il Signore”. Invece dobbiamo riconoscerlo: da secoli, in occidente, l’attesa della venuta del Signore è una dimensione per lo più assente nella vita di fede dei cristiani. Era il rammarico di Ignazio Silone che scriveva: “Mi sono stancato di cristiani che aspettano la venuta del loro Signore con la stessa indifferenza con cui si aspetta l’arrivo dell’autobus”.

Rivelatore di questa realtà è il modo abituale di comprendere e vivere l’Avvento. Io sono persuaso che l’Avvento è il tempo liturgico oggi meno compreso nel suo valore e nel suo significato. Lo si è ridotto a tempo di preparazione alla festa del Natale. Che tristezza! Non si comprende che l’Avvento è la chiave di tutto l’anno liturgico: l’escatologia è la verità dimenticata dell’intero anno liturgico.

L’Avvento è la chiave per comprendere la celebrazione delle feste della manifestazione del Signore nella carne: i fatti che hanno immediatamente preceduto la nascita di Gesù Cristo, la sua nascita a Betlemme, la manifestazione ai Magi, il battesimo nel Giordano fino alle nozze di Cana. Capiti nella loro intelligenza spirituale, i testi liturgici dell’Avvento esprimono non l’attesa di una nascita già avvenuta nella storia una volta per tutte, quanto piuttosto l’attesa della definitiva venuta di Cristo nella gloria.

Domandiamoci: ma com’è possibile che la liturgia cristiana, che è sempre memoriale della morte e risurrezione di Cristo finché egli venga, faccia di noi cristiani gente per la quale il Signore non è ancora nato e dobbiamo attendere la sua nascita? Se la liturgia dell’Avvento ci costringesse a immedesimarci in coloro che duemila anni fa attesero la nascita di Gesù, la liturgia sarebbe nient’altro che l’artefice di un complesso sociodramma, ossia di una rievocazione ritualizzata degli eventi fondatori del cristianesimo. La nascita non la si attende ma la si commemora (commemoratio nativitatis Domini nostri Jesu Christi ), ciò che si attende è invece la parusia che è il compimento del mistero Pasquale.

Il modo di vivere l’Avvento è il simbolo della diffusa perdita della dimensione escatologica che è uno dei tratti distintivi del cristianesimo moderno e contemporaneo occidentale. La progressiva spiritualizzazione dell’escatologia ha portato l’esistenza cristiana a soffrire di un male grave: l’amnesia della parusia. Osservando come la malattia del nostro tempo sia la volontà di dimenticare l’avvento di Dio, J.B. Metz in una preziosa meditazione sull’Avvento pone una domanda:

“Domandiamoci una volta in questi giorni di Avvento e di Natale: non agiamo forse, segretamente, come se Dio fosse restato tutto alle nostre spalle, come se noi – frutti tardivi di questo ventesimo secolo post Christum natum – potessimo trovare Dio solamente in un facile e malinconico sguardo del nostro cuore, una debole luce riflessa alla grotta di Betlemme, al bambino che ci è stato dato?

Abbiamo noi qualche cosa di più della visione di questo bambino negli occhi, quando nelle nostre preghiere e nei nostri canti proclamiamo: è l’Avvento di Dio? Prendiamo qualche cosa di più del Dio dei nostri ricordi e dei nostri sogni? Cerchiamo realmente Dio anche nel nostro futuro? Siamo uomini dell’Avvento, che hanno nel cuore l’urgenza della venuta di Cristo, e con gli occhi che spiano, cercando negli orizzonti della propria vita il suo volto albeggiante?”. (J. B. Metz, Avvento di Dio, Queriniana, Brescia 1966, p. 22.)

Oggi, dobbiamo riconoscerlo, vi è una patologia nel modo di vivere l’Avvento. In realtà l’Avvento è il solo specifico cristiano, perché un tempo di digiuno e penitenza come la Quaresima la condividiamo con l’islam, il tempo della Pasqua con l’ebraismo, ma l’attesa della venuta del Kyrios è solo cristiana. Solo noi cristiani attendiamo il ritorno di Cristo da lui stesso promesso: “Sì vengo presto! Amen.” (Ap 22,20) Per questo, privare l’anno liturgico della sua costitutiva dimensione escatologica significa sottrarre alla fede cristiana la dimensione della speranza.

Così compreso e vissuto, l’Avvento sarebbe il tempo dell’anno liturgico più eloquente per i credenti di oggi. Uomini e donne che faticano a sperare perché privati di ogni speranza, a volte perfino incapaci di sperare. Per questo, occorre fare attenzione a liturgie troppo festanti al limite del superficiale, eccessive nei toni e negli accenti, quasi che si debba sempre ed a ogni costo far festa.

Domandiamoci: si è altrettanto capaci di offrire ai credenti liturgie capaci di suscitare la speranza, di nutrirla. Liturgie capaci di dare ragioni per sperare a cuori stanchi ed affaticati, capaci di risollevare quanti, come i discepoli di Emmaus, si fermano “con il volto triste”. Lo sappiamo, la fatica a credere, ad avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, è uno dei tratti che caratterizzano l’uomo e la donna occidentali dei nostri giorni e questo non può non segnare anche la fede del credente contemporaneo.

Comprendere l’anno liturgico non come un ciclo, un anello chiuso su di sé, ma come un movimento elicoidale che mette la fede in cammino significa, nel preciso contesto antropologico, culturale e sociale nel quale viviamo, comprendere che le nostre liturgie, e più in generale le celebrazioni dei sacramenti, sono oggi chiamate ad ospitare un modo di vivere la fede, anche tra i credenti più assidui, che non è più, come un tempo, la somma di certezze incrollabili, ma è l’espressione di un desiderio di qualcosa e di qualcuno in cui poter sperare, così che credere significa aggrapparsi ad una speranza.

Oggi la fede è, infatti, per lo più sperimentata come l’apertura ad una speranza. Nutrire la speranza, questo oggi è il compito primo dell’anno liturgico, dare ragioni per alimentarla, per esercitarsi a credere che ci sono realtà non visibili, e queste realtà sono la nostra salvezza. Uscire dalla precarietà in cui ci si trova per entrare un giorno nella condizione di beatitudine in Dio. “Solo la speranza nella vita eterna ci fa propriamente cristiani”, ha scritto Agostino (La città di Dio, VI,9,5.).

Oggi è molto difficile parlare di speranza, dare ragioni di speranza, eppure questo è il compito oggi dell’anno liturgico, perché la mancanza di speranza rende l’uomo estraneo al tempo, irrimediabilmente assente a questo tempo presente. La speranza è esattamente questo: volere infinitamente il finito, è vivere eternamente il tempo. Come ha scritto Emmanuel Mounier in un saggio dedicato a Péguy, la speranza “Rifà ciò che l’abitudine disfa. E’ la sorgente di tutte le nascite spirituali, di ogni libertà, di ogni novità. Semina cominciamenti là dove l’abitudine immette morte”

15/11/2022

“Ciò che nella vita rimane, non sono i doni materiali, ma i ricordi dei momenti che hai vissuto e ti hanno fatto felice. La tua ricchezza non è chiusa in una cassaforte, ma nella tua mente. E’ nelle emozioni che hai provato dentro la tua anima.”

-Alda Merini

2 Novembre

“Ho ancora bisogno di una tua parola, di un tuo sguardo, di un tuo gesto.
Ma poi all’improvviso sento i tuoi gesti nei miei, ti riconosco nelle mie parole.
Tutti coloro che se ne vanno, ti lasciano sempre addosso un po’ di sé.
E’ questo il segreto della memoria?
Se è così, allora, mi sento più sicura perché so che non sarò mai sola.”

-Ferzan Özpetek

Ripensami nonna

Ripensami, nonna, non dimenticarmi mai. Ricordami come quando ridendo con quelle buffe rughe mi ripetevi le marachelle che combinavo, o quanto eri fiera dei miei piccoli successi inaspettati.

Ripensami, nonna, non dimenticarmi mai. Ricordami come quando al mattino mi preparavi il latte, o quando anche con una semplice scusa mi chiamavi solo per sentire la mia voce.

Dovunque tu sarai, lo sai che devi fare se non sono insieme a te; come ad esempio potremmo far finta che ci sia un posto dove possa ancora parlarti, un posto che sappiamo solo io e te o magari canticchiare quella canzone che ti piaceva così tanto e sto dimenticando.

Ora devo andare via, sono grande ormai e ho tante cose da fare, ma tu continua a cantarla, solo sentendo questa melodia uniremo con le note il cuore e le anime, e il tuo amore rimarrà sempre per me.

Così come rimarranno sempre con me i tuoi capelli bianchi, il profumo di buono che facevi, il tuo sorriso e la parlata strana. E il bene che mi volevi, rimarrà sempre per me.”

Monologo tratto da Coco

Quando un giorno

Quando un giorno ripercorrerai

la strada dove da bambina muovevi i primi passi,

curiosa delle alchimie del mondo,

osservando adulti sconosciuti

muoversi nei loro gesti decisi,

ricordati di me,

tua madre.

Quando un giorno ti soffermerai davanti a quella costruzione

con le finestre alte

e il portone grande e scuro,

e ti verranno in mente i momenti in cui temevi per l’ingresso a scuola,

chiedendomi di restare al tuo fianco

ancora pochi minuti,

ricordati di me,

tuo padre.

Quando ogni pietra, ogni incrocio, ogni muro,

quando la saracinesca abbassata di una vecchia merceria,

o l’insegna illuminata di un bar che ha preso il suo posto

ti parlerà di noi,

sorridi.

Eravamo e saremo,

nonostante il tempo

e le separazioni,

i tuoi genitori.

Non più carne,

non più respiro,

non più voce,

ma prepotentemente parte di te.

Uno solo,

o due,

non conta.

Conta chi c’è stato.

L’amore guarda alla sostanza

tutto il resto viene ignorato.

C. Fiorello

Meraviglia

“Bisognerebbe insegnarla a scuola
la meraviglia.

Perché l’abbiamo sepolta
sotto macerie di distrazioni,
di paure, di pensieri.
E non sappiamo più scorgerla.
In nessun luogo.
Quando invece è dappertutto.
Potrebbe essere una materia nuova.
Una delle più importanti.
Perché è proprio la meraviglia
che ci fa rimanere a bocca aperta.
E aprendo la bocca
si apre in automatico anche il cuore.
E da lì tutto entra.
Senza sforzo, fatica o stanchezza.
E’ ora di dare nutrimento al nostro cuore”

Elena Bernabè

Immagine di: DeltaWorks